La Cappella san Benedetto

Prefazione

Nel suo DNA l’uomo porta inciso il desiderio di vedere Dio. Ma Dio è mistero invisibile. Nessuno lo ha visto mai. Nessuno lo può vedere e restare in vita. Da lui ci separa il fitto, oscuro velo della morte. Per questo l’Antico Testamento proibisce inflessibilmente di fare alcuna immagine del Dio invisibile. Ma quando il Padre si è reso visibile nel Figlio fatto uomo, la sua incarnazione ha inaugurato una nuova «economia» delle immagini di Dio. L’iconografia cristiana trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la Parola. Così Immagine e Parola si illuminano a vicenda. La Chiesa ha impegnato tutte le sue energie – teologiche, spirituali, culturali – per reagire alla furiosa lotta iconoclasta ingaggiata da Leone Isaurico, e per difendere la «rappresentabilità» di Cristo, immagine visibile del Padre invisibile, fino alla riaffermazione della legittimità e della insostituibile importanza delle icone nel concilio di Nicea II (787). Ne andava della verità dell’incarnazione: se Cristo non si può raffigurare, neppure si è incarnato. Ancora una volta la questione investiva la Madre: chi rifiuta l’icona, rigetta il mistero della Tehotokos, della santa Madre di Dio. È per il fatto di essere stato generato da Maria che il Figlio di Dio, vero Dio, è anche vero uomo. La luce che brilla sul volto di Cristo «icona del Dio invisibile» (Col 1,15) si riverbera sulla Madre, sugli angeli e sui santi.  

Le icone rimandano dunque ai prototipi, alle persone, a Cristo, e quindi al mistero di Dio. La loro contemplazione non solo facilita la conoscenza, ma ravviva una comunione vitale, realizza un incontro, irradia una presenza. La loro mediazione non è solo didattica, ma cultuale. Si rivela particolarmente valida in una civiltà delle immagini qual è la nostra.

Nell’ultimo quarto del Novecento abbiamo assistito a un vero revival delle icone orientali nella nostra area occidentale, fino alla loro più brutale commercializzazione. Bisogna diffidare di questa moda che arriva a fare di una antica icona un pezzo d’arredamento di un salotto di gente benestante. Di questo passo si giunge alla dissacrazione e profanazione delle sante immagini perché si estrae l’icona dal contesto della preghiera, disattendendo la sua funzione essenziale. «Se qualcuno ti chiede della tua fede, portalo in chiesa e mostragli le icone». Questo monito di s. Giovanni Crisostomo colloca le icone nel loro contesto nativo, nel posto d’onore della santa liturgia, dove le icone vengono venerate, incensate e pregate. 

Come sappiamo, il nostro nuovo seminario – voluto e realizzato dal mio predecessore, Mons. Mariano De Nicolò – sorge sul colle di Covignano, costruito sui resti di un antico monastero olivetano. Tra i pochi resti, è rimasta quasi intatta un’antica dispensa, ora adibita a cripta. Il disegno pulito e armonioso delle volte a crociera, la penombra creata dalla poca luce che filtra dalle finestrelle, ne fanno un ambiente che non è eccessivo definire mistico. Basta andarci, immergersi nell’alto silenzio soffuso di intensa spiritualità, e sentire salire dal cuore il fiotto della preghiera.

Ora la cripta è diventata uno scrigno prezioso, contenente le icone del pellegrinaggio della fede di Maria, «la faccia che a Cristo più si somiglia», come la definiva Dante, la «Virgo audiens», la Vergine dell’ascolto, la prima Chiamata, il perfetto riflesso di quella bellezza che da Cristo proviene e a Cristo conduce.

Possa la santa Madre di Dio, contemplata nelle splendide icone realizzate nel laboratorio delle nostre sorelle del Carmelo di Sogliano,  far ripercuotere la gioia del suo sì nel cuore di molti dei nostri giovani.  

+ Francesco Lambiasi